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Intervento alla commemorazione per i 70 anni dell'eccidio di Tavolicci
Tavolicci, 20 luglio 2014
 

Tra i tanti documenti che ho consultato in vista di questa occasione, mi hanno colpito soprattutto le fotografie dei bambini. Ho pensato ai tanti figli di contadini delle colline romagnole, con pantaloni sempre troppo larghi o troppo stretti, e ai loro sguardi. C’era in loro l’incapacità di cogliere quel che succedeva, se ancora piccoli, o la prima presa di coscienza dell’orrore che avvolgeva un mondo povero ma onesto, laborioso e silenzioso.

Ho pensato che alcuni di quei bambini, nati a Tredozio come a Modigliana, a San Carlo come a Bagno di Romagna, sono qui con noi e probabilmente conservano ancora nella loro memoria le immagini di quanto accadde. Ho pensato, non sono riuscito ad evitarlo, ai tanti bambini che non hanno visto la fine della guerra. Che non hanno visto la Liberazione, né l’Italia che si faceva Repubblica democratica e provava a ricostruire la propria storia. Ho pensato che tra questi ultimi c’erano anche i 19 bambini sotto i dieci anni trucidati a Tavolicci. Diciannove paia di occhi che non hanno visto l’alba del 23 luglio 1944, inghiottiti dalla Linea Gotica e da una delle violenze più inconcepibili della nostra storia.

E poi ho pensato ai miei figli. E a come poter fare per spiegare loro, ora che sono bambini, ma soprattutto un domani in cui saranno un uomo e una donna liberi, che Tavolicci è esistita davvero perché sono stati gli uomini a decidere l’eccidio e a portarlo a compimento, e a macchiare di sangue la terra, e di nero il cielo. “La Resistenza – ha scritto Italo Calvino – fu la fusione tra paesaggi e persone”. E Tavolicci è dentro di noi perché ciascuno di noi poteva esserci. Tavolicci poteva essere Sogliano, la città in cui sono nato poco più di vent’anni dopo la guerra. I miei figli, i figli di tutti noi, devono sapere quel che è successo qui, anche se si tratta di un dramma di 70 anni fa, anzi soprattutto poiché si tratta di un dramma di 70 anni fa. Perché non viene insegnato nelle scuole, e su questo molto sarebbe da discutere.

C’è un dialogo bellissimo nel libro “Il nome della rosa”, di Umberto Eco. È la scena in cui Guglielmo da Baskerville dialoga col venerabile Jorge da Burgos, il quale spiega come la conoscenza, tramandata attraverso il lavoro dei monaci, sia esclusivamente conservazione dell’esistente. Guglielmo da Baskerville risponde che non è sufficiente conservare la conoscenza, ma che va esplorata, innovata, messa alla prova.

Lo stesso vale per la memoria, e specialmente per quella della Resistenza che oggi celebriamo. Tavolicci e la sua storia vanno certamente conservate, tutelate, e protette, ma la nostra ambizione, come figli di una terra che ha combattuto il nazifascismo, dev’essere quella di fare in modo che la lezione più grande che Tavolicci ci insegna sia perpetrata. Questa lezione è quella della tutela assoluta e irrinunciabile della dignità dell’uomo, per far sì che non ci siano mai più altre Tavolicci. Né in Italia, né in Europa, né nei paesi a noi vicini.

La generazione dei miei genitori è quella uscita dalla Guerra Mondiale; la mia non ha mai conosciuto atrocità del genere, e meno che mai, mi auguro, lo faranno i miei figli. Vale la pena chiedersi, dunque, in che modo si possa proteggere il filo della memoria, ma anche in che modo si possa rinsaldare. Come possiamo noi, che non abbiamo attraversato le atrocità della dittatura, della guerra, della deportazione, delle stragi, avere la forza e la levatura morale per poter tramandare il messaggio che la libertà e la dignità umana vanno tutelate sempre, in qualsiasi luogo e qualsiasi condizione, anche se in contesti infinitamente meno drammatici rispetto all’estate del 1944.

L’amore per la libertà è qualcosa di indivisibile, per comprenderlo basta rileggere l’appello del generale Alexander, il britannico che guidava le forze alleate in Italia. Alexander si rivolgeva esattamente a tutti coloro che erano pronti a combattere e se necessario anche a dare la propria vita per la libertà, per scacciare il nemico nazifascista. Non c’era nulla di più lontano dal mondo di Alexander e delle sue truppe dalla nostra piccola realtà italiana, eppure non per questo si tirarono indietro. Senza gli anglo-americani, non ci saremmo mai liberati dalle catene del nazifascismo. Ma senza la lotta dei partigiani, della Brigata Garibaldi e di tutti coloro che si spesero anche solo con una bicicletta, non avremmo mai più – mai più – avuto il diritto a camminare a testa alta, dopo le barbarie della dittatura e della guerra.

Tavolicci non è accaduto a caso: è stato il frutto dell’odio e della violenza nazifascista. Un odio scatenato su civili inermi, una comunità “pietrificata” dalla guerra, come recita il titolo del bel libro edito da Vladimiro Flamigni, Roberto Branchetti, Ennio Bonali e Sergio Lolletti. Il male non è mai uguale l’uno all’altro, e compito della nostra memoria storica è quella di comprendere e tramandare perché quel male, quello di Tavolicci, delle squadracce della Guardia Nazionale, delle 64 persone morte in una notte di luglio, sia potuto accadere. Ecco perché a Tavolicci devono venire le scuole in gita, ecco perché è bene che si siano fatte – e magari si facciano ancora – rappresentazioni teatrali, ecco perché a ogni adolescente andrebbe fatto leggere “Il sogno di Doro” di Efrem Satanassi. Perché è venendo su queste strade, ascoltando queste testimonianze, immergendosi in quel mondo, che possiamo solo immaginare noi oggi, che possiamo percepire cosa fosse l’estate del 1944.

Ma allo stesso tempo, abbiamo l’enorme responsabilità di costruire una società che sia immune non solo da quel tipo di male – quello derivante dall’assenza di libertà, dall’infuriare della guerra e dalla violenza assassina – ma anche da tante e diverse forme di male. Non diamo mai per scontato che il male si possa attenuare, o evaporare, poiché è mando abbassiamo la guardia che le forme d’odio si fanno più sottili e silenziose, e gli spettri della violenza dilagano nelle nostre comunità.

La ragione di tutto ciò è stata descritta dalle parole di Hannah Arendt in maniera mirabile ne “Le origini del totalitarismo”: “Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile”. Questa è la posta in gioco. Siamo in grado, noi, uomini e donne nati e cresciuti liberi, nell’Occidente che ha fatto della tutela dei valori fondamentali un elemento imprescindibile, di difendere la libertà non tanto dall’oppressione della dittatura ma dall’oppressione delle tante privazioni che quotidianamente vengono messe in atto ai danni delle minoranze, dei poveri, di coloro che cercano diritti che ancora non hanno?

Ecco che tornano le parole di Guglielmo da Baskerville. Noi non possiamo permetterci semplicemente di conservare la nostra società, pur libera e democratica. Noi abbiamo il dovere, l’imperativo categorico di estendere la libertà. Di ampliare i confini dei diritti. Di cogliere quello che è il nuovo senso del bisogno – fortunatamente non più quello di uscire da una guerra o da una tirannia – e di farci interpreti di queste richieste.

Io sono convinto che oggi, nel 2014, esistano tanti spazi nei quali si renda ancora necessario difendere la libertà, nonché ampliarla, e rafforzarla. Ma noi abbiamo un grande privilegio, in tutto ciò: possiamo pensare di proteggere chi non ha diritti non più solamente come italiani o inglesi, e non più dall’oppressione di altri popoli. Noi abbiamo la fortuna di poter mettere in campo l’Europa in questa lotta per la tutela dei diritti e della libertà: le nostre stelle sono le nostre strade, e sulla bandiera europea di stelle ce ne sono ben quindici, ma tante altre sono pronte ad aggiungersi a questa costellazione.

Perché penso all’Europa? Non tanto per la mia esperienza personale, che pure è stata determinante per il mio percorso e la mia formazione; né per il mio attuale incarico, che pure mi onora e del quale avverto tutta la responsabilità. Ma perché l’Europa è il naturale approdo di un processo politico di pace che nasce proprio dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale. Ed è, soprattutto, lo spazio politico fondamentale nel quale combattere le prossime battaglie per la tutela della dignità dell’uomo.

Ho parlato di Europa e Seconda Guerra Mondiale: tutti conoscono il Manifesto di Ventotene, scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. Un documento fondamentale per il destino del nostro continente, redatto nel 1944 mentre ancora risuonavano le bombe in tutta Europa, senza per questo scolorire il sogno di chi auspicava “Un’Europa libera e unita”, come recitava il titolo originale del Manifesto. È lì che nacque l’idea di Europa libera e unita come la conosciamo ora: un’intuizione formidabile, un atto di amore e di coraggio impensabile in tempo di guerra. Proprio per questo, ogni volta che la storiografia mi dà l’opportunità di conoscere altre testimonianze europeiste del passato, non posso fare a meno di emozionarmi. E non posso fare a meno di inginocchiarmi, di fronte alla nobiltà e alla grandezza d’animo di chi nell’agosto 1944, ancora lontanissimi dalla Liberazione, aveva la capacità di pensare all’Europa.

“Ritorno all’Europa”: questo era il titolo dell’articolo principale della Voce Repubblicana dell’agosto 1944, quarto numero di una pubblicazione clandestina che apriva ricordando la barbara impiccagione di Silvio Corbara, Adriano Casadei, Arturo Spazzoli e Iris Versari. L’articolo si apriva con queste parole: “Del nostro ritorno in seno alla Comunità Europea, come entità operante, più volte si è parlato; e non c’è italiano che vero che non auspichi questo ritorno completo, fatto di dignità nazionale, ricco del peso morale, intellettuale ed economico che la massa dei lavoratori italiani necessariamente apporterà all’Europa”. Ancora, più sotto: “Portare il nostro peso in un’Europa non solo intenzionalmente riconciliata, significa portare la perfezionata attività di ciascuno di noi su un piano di uguaglianza con gli altri uomini; ed è quindi assurdo pensare alla uguaglianza degli uomini della Comunità Europea, se non si pensa nello stesso tempo ad una identica uguaglianza dei popoli di cui essi uomini sono una realtà operante. Perciò, prima di uguaglianza fra gli uomini nell’Europa rinnovatasi a nuovi destini, sarà opportuno parlare di eguaglianza e meglio ancora di parità di diritti e di doveri tra i popoli”.

È un articolo scritto e pubblicato esattamente 70 anni fa. Ma posso assicurarvi che, viaggiando ogni settimana per l’Europa, non saprei trovare parole migliori per molti dei temi che ci troviamo ad affrontare. E’ davvero incredibile l’attualità di questi pensieri, che provavano a rispondere ai cingoli dei carri armati con la forza delle idee. Ecco perché dobbiamo lavorare a partire dall’Europa: perché ci sono urgenze, emergenze, crisi e conflitti che non possiamo risolvere semplicemente come italiani. D’altra parte, questi 70 anni sono stati percorsi nell’ottica di superare le divisioni nazionali, andare oltre le contrapposizioni identitarie che hanno causato attriti e conflitti per secoli, e costruire un sentiero di pace che potesse attraversare il continente. È grazie all’intuizione dei padri fondatori se l’Europa è riuscita a essere una forza di pace anche in epoca di Guerra Fredda, e se ora, nonostante le grandi difficoltà che la cronaca ci consegna, è solo dall’Europa che potrà venire fuori una risposta forte a tutte quelle situazioni nelle quali la dignità umana viene calpestata. Questo accade poiché attraversiamo un’èra di difficile lettura, nella quale i piani si sovrappongono e le appartenenze classiche, basate sugli stati-nazione, non sono più sufficienti a rispondere ai problemi diffusi dei cittadini.

Eppure, ed è un pensiero che mi angoscia, il progetto europeo cui tanti sforzi dedicarono i padri fondatori, ancora oggi rischia di essere messo in crisi. “La democrazia ha molti nemici in attesa dietro le quinte” scrive lo storico Paul Ginsborg: e il nostro tempo purtroppo è testimone delle tante spinte nazionalistiche, xenofobe, razziste e populiste che la crisi economica che attanaglia l’Europa ha fatto riemergere. Preoccuparsi è lecito, ma non basta. Ognuno di noi deve sentire l’urgenza interiore di agire affinché l’Europa che abbiamo conosciuto continui a essere una forza inclusiva, capace di mediare laddove c’è chi vuole rompere, e capace di scacciare i fantasmi del passato per fare in modo che non si ripresentino sotto mentite spoglie, magari semplicemente edulcorate ma non meno pericolose. Il Parlamento Europeo, la cui elezione a suffragio universale veniva definita una “decisione fondamentale” per la realizzazione di “un’Europa dei popoli” da parte di Aldo Moro al Consiglio Europeo del 1975, oggi vede sedere tra i suoi scranni un deputato del partito neonazista tedesco, due greci di Alba Dorata e tre membri del partito ungherese Jobbik, estrema destra antisemita. Non era mai accaduto nei quasi quarant’anni di storia del Parlamento Europeo.

L’idea di Europa che abbiamo sempre difeso è infatti quella di una forza promotrice di libertà e democrazia, attenta alla tutela dei diritti umani e contro ogni tipo di oppressione. È la storia stessa dell’Unione Europea che lo può dimostrare. Grazie all’àncora europea abbiamo permesso la stabilità della democrazia in Spagna, Grecia e Portogallo negli anni Ottanta; e sempre grazie all’Europa abbiamo aperto ai paesi dell’Est nel 2004, il più grande allargamento della storia del nostro continente, superando i lasciti delle dittature di qualsiasi colore: un evento di cui fui privilegiato testimone all’epoca in cui lavoravo insieme al Presidente Romano Prodi. Ma il nostro compito non è finito. Il nostro compito non è finito se è vero che la libertà e la democrazia sono in pericolo in Ucraina, se terribili crimini vengono compiuti nei paesi a noi vicini, se la compressione dei diritti avviene ancora, ogni giorno, in un paese membro dell’Unione Europea come l’Ungheria di Orban. Il nostro compito non è finito, se è vero che i teatri delle più grandi tragedie umanitarie del nostro tempo non sono più montagne e colline, ma le acque del Mediterraneo. Dove sta la dignità dell’uomo nel momento in cui centinaia di corpi di migranti vengono inghiottiti dal mare, vittime dell’indifferenza dei tanti Paesi europei che irresponsabilmente non accettano di prendere le proprie responsabilità di fronte alle tante Lampedusa che si susseguono? Come possiamo dirci veramente cittadini europei, figli della migliore tradizione democratica se poi non siamo in grado di agire per tutelare la vita di persone che non hanno nome quando scompaiono tra le acque, o quando ci dimentichiamo di loro negli infiniti ostacoli a una piena accettazione all’interno delle nostre società e comunità?

Questa è la sfida che ci attende. Non sarà facile, non può esserlo data la complessità dei valori in gioco e le oggettive difficoltà. Ma abbiamo il dovere, morale prima di tutto, di credere che la forza tranquilla della democrazia e della libertà possa dispiegarsi anche laddove non sia ancora riconosciuta e accettata. Tavolicci è qui per questo: per ricordarci che gli uomini sono in grado di compiere atroci tragedie, ma anche per testimoniare la nostra volontà di combattere il male in ogni sua forma, in ogni sua declinazione. Non possiamo pensarci europei se non portiamo avanti il grande sogno di Altiero Spinelli e dei suoi, come dei giovani repubblicani di Forlì. Sarà l’Europa unita il mare verso cui salpare, il sentiero di montagna da intraprendere, poiché solo da lì saremo in grado di dare le risposte a chi invoca aiuto.



 
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