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Intervento del SS. Gozi per la Conferenza “Lo Sport come stile di vita in Europa”
 
Firenze, 14 novembre 2014
 

“Lo sport come stile di vita in Europa”: per uno come me, che si alza spesso alle sei di mattina per correre, il titolo di questo convegno e’ un invito a nozze.

Il senso di libertà e di soddisfazione che provo mentre corro, che sia sul lungotevere come nei parchi di tutte le città d’Europa dove spesso mi trovo, è impagabile. E spesso mentre corro per prepararmi alle maratone (l’ultima, a Venezia, è stata difficilissima) penso a quanto sia importante l’attività sportiva per noi e per i nostri figli, e quanto grande sia il rischio di sottovalutarne la rilevanza.

Il problema è che lo sport viene considerato troppo spesso come qualcosa di accessorio, mentre non è così. Perché è anche dall’attività fisica che si determina la qualità del nostro vivere. Capisco benissimo che la nostra società, quella europea in particolare, sia ancora sotto scacco da una crisi economica e sociale i cui effetti sono sempre più pesanti ogni mese che passa. In discussione non sono solo le condizioni economiche dei nostri paesi, i bilanci, i debiti, ma è soprattutto il nostro modello sociale ad essere attaccato. Il mondo occidentale non è impoverito solamente da un punto di vista della produzione, dell’occupazione, ma lo è ancora di più da un punto di vista immateriale. Molti dei riferimenti che hanno guidato la nostra azione negli anni passati sono venuti meno; in tempo di crisi anche le più piccole certezze spariscono.

Una società che sta bene è una società che ha tempo per pensare a come nutrirsi, a come e a quanto muoversi: in una parola, è una società in equilibrio. Purtroppo, quella società non è più la nostra. Non siamo più capaci di fermarci a riflettere su cosa ci fa bene e cosa no, su quali azioni sono corrette e quali no, e soprattutto, non siamo più in grado di affrontare in maniera organica i molteplici aspetti del vivere sano. E mai come in questo momento ce ne sarebbe bisogno.

Abbiamo bisogno di tornare a “vivere sano”, e per farlo non può essere sufficiente l’azione di un unico attore, sia pubblico o privato. Abbiamo bisogno di una rete, di un sistema, di unire i vari elementi in grado di contribuire al miglioramento del nostro stile di vita. Uno dei più grandi sportivi di tutti i tempi, Michael Jordan, ricordava sempre che “con il talento si vincono le partite, ma con il lavoro di squadra di vincono i campionati”. Ecco, noi di fronte abbiamo due possibilità: lavorare a compartimenti stagni, ogni attore chiuso nel suo guscio, nella propria attività, nel proprio paese, oppure lavorare di squadra. Devo dire che in Italia, e questo e’ uno dei grandi problemi che dobbiamo affrontare come paese, il lavoro individuale prevale largamente sul lavoro di squadra. Quando sentiamo dire che l’Italia non e’ capace di fare sistema in realtà stiamo facendo i conti con questo approccio a compartimenti stagni. Se le società sportive si limitano a chiedere facilitazioni e le amministrazioni pubbliche si limitano a dire che non hanno fondi, la cultura sportiva non farà grandi passi avanti in questo paese. E’ come se ognuno fosse sopraffatto dai propri problemi e non avesse più la forza, la sensibilità e l’intelligenza di ascoltare e supportare quelli degli altri. Per fare sistema, in ambito sportivo come in tutti gli altri, servono soprattutto idee condivise. Vuol dire che ogni proposta, da chiunque venga, dovrebbe tenere presente già in partenze le esigenze degli interlocutori. Vuol dire smetterla di parlare tra sordi, tutti convinti delle loro buone ragioni.

Se davvero vogliamo garantire alle nostre società uno stile di vita sano, dobbiamo essere capaci di coinvolgere quanti più attori possibile. Dall’attenzione per l’alimentazione alla necessità di fare meglio e più sport a scuola. Dalla formazione di chi si occupa di sport, alla dotazione delle migliori strutture sportive. Insomma: non sarà mai un solo governo, o un solo ministro, o una sola federazione sportiva nazionale a poter riuscire singolarmente. Tutti siamo chiamati a fare la nostra parte, poiché senza la spinta delle amministrazioni pubbliche non ci sarà determinazione nel perseguire certi obiettivi, ma senza l’apertura al sostegno dei privati sarà molto difficile ottenere le necessarie risorse. Dobbiamo essere in grado di lanciare modelli di partnership il cui obiettivo è garantire un miglioramento del benessere generale.

Muoverci nella direzione del benessere richiede sforzi costanti: vale per tutti, dagli stakeholders coinvolti sul territorio alle amministrazioni pubbliche, dalle realtà imprenditoriali a quelle di ricerca, fino alle responsabilità nazionali ed europee dei politici.

Sport ed Europa non sempre sono andati d’accordo. L’ultimo esempio è quello relativo alla formazione della commissione Juncker: in un primo momento lo sport non era nemmeno stato citato nell’indicazione dei portafogli, ma dopo ripetute pressioni si è provveduto a modificare la denominazione del portafoglio destinato all’ungherese Navacsics, che ora è “educazione, cultura, sport e giovani”. Mi pare una modifica significativa e doverosa. Non a caso lo sport rappresenta il 3.5 del PIL della UE.

Il consiglio dell'unione europea ha adottato il piano di lavoro dell'unione europea per lo sport 2014-2017 e il capitolo sport di Erasmus+ è già stato messo in atto. Tuttavia, lo sport è per definizione una questione trasversale. Quindi la domanda più importante non è “cosa sta facendo l’UE di sua competenza diretta in ambito dello sport”, ma piuttosto “come lo sport viene preso in considerazione in tutti i settori politici”. Come è stato sottolineato dalla commissione europea nella sua comunicazione sullo sviluppo della dimensione europea dello sport, l'integrazione sportiva è una sfida chiave e riflette esattamente il desiderio espresso da Jean-Claude Juncker per migliorare il coordinamento interno della commissione.

Cosa manca allo sport da un punto di vista europeo? Come tutti sappiamo, la parola “sport” non è stata prevista nei trattati di Maastricht, venendo inserita solo nel 2009 nei trattati di Lisbona. Non esiste, di conseguenza una specificità attribuibile allo sport: alcuni passi avanti sono stati fatti con la carta di Nizza, che però come è noto non è vincolante.
Di conseguenza le specificità dello sport, a differenza della cultura, non sono state mai prese in considerazione né dal legislatore, né dalla corte europea di giustizia, né dalla politica comunitaria.

È un rapporto complesso quello tra sport e unione europea: in quei casi in cui Bruxelles ha scelto di intervenire in ambito sportivo, spesso si è trattato di “interventi a gamba tesa”.

Penso alla ormai celebre legge Bosman, che ha creato non pochi problemi. La Bosman infatti non ha tenuto in alcun conto la peculiarità della figura dell’atleta rispetto alla generica categoria dei lavoratori subordinati, con conseguenze spesso significative. I club hanno, infatti, decurtato notevolmente gli investimenti in favore dei vivai giovanili, trovando più conveniente tesserare atleti già affermati, provenienti dai paesi comunitari piuttosto che impegnare fondi per allevare i giovani atleti;

Vengo alle conclusioni. Come possiamo migliorare la governance sportiva, e come possiamo ottenere una sempre migliore cooperazione tra istituzioni sportive e istituzioni europee?
Occorre rendersi conto di una cosa: lo sport non è solo mercato, e non è solo intrecci economici. È una realtà molto più complessa, che attiene al buon vivere e una cultura di rispetto reciproco, come spiegavo all’inizio. Di conseguenza, merita una sfera di specificità che l’unione europea deve riconoscergli. È su questo terreno, a mio avviso, che si può creare un rapporto virtuoso tra le varie istituzioni.
Lo sport è un elemento troppo importante per essere dimenticato o trascurato. Attraverso lo sport abbiamo combattuto ogni discriminazione, abbiamo avviato la diplomazia (penso alla diplomazia del ping-pong tra Cina e Stati Uniti), abbiamo emancipato migliaia di donne. Dobbiamo fare qualsiasi cosa affinché sullo sport ci sia un terreno di incontro e non di scontro: lo sport unisce, non divide. Cerchiamo di ricordarcelo.



 
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